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A chi posso lasciare la mia azienda?

Ho una piccola azienda metalmeccanica. Dopo una vita di lavoro, ora, nonostante la crisi, esportiamo in tutto il mondo! Ho due figli e devo pensare alla mia successione.

Immagino che lei voglia lasciare l’azienda ai suoi figli. Il problema del passaggio generazionale delle attività imprenditoriali è, in Italia, particolarmente importante perché il nostro sistema economico si regge su tante imprese come la sua, controllate da un’unica famiglia e, spesso, governate da un’unica persona.

Il punto è che i miei due figli sono molto diversi fra loro. Il maggiore è ingegnere ed ha studiato all’estero. Ora lavora in azienda.

Quindi può contribuire con idee nuove a sviluppare la vostra attività. E l’altro?

Il minore è un bravo ragazzo ma non ha mai avuto voglia di studiare… Ha già un figlio, un bambino intelligentissimo.

Dunque lei vorrebbe lasciare l’azienda al primogenito che è l’unico che le sembra in grado di svilupparla in futuro.

Esatto. Anche perché il maggiore mi ha detto chiaramente che è disposto ad investire nell’azienda solo se ha la sicurezza di diventare, dopo la mia morte, il titolare.

Sono sicuro che queste discussioni la amareggiano, anche perché una lite fra i fratelli comprometterebbe la gestione dell’azienda e quindi rischierebbe di distruggere i risultati di tutto il suo lavoro. 

Esiste una soluzione?

Nel 2006, proprio in considerazione dell’importanza nel sistema economico italiano delle imprese a gestione familiare, è stato introdotto nel codice civile il patto di famiglia. Si tratta di un contratto con cui l’imprenditore trasferisce l’azienda (o una quota) ad uno dei suoi discendenti. Al patto devono partecipare anche il coniuge e gli altri discendenti. In questo modo l’azienda esce definitivamente dal patrimonio dell’imprenditore anche dal punto di vista dei diritti successori. Il discendente designato ottiene la sicurezza che gli altri eredi non potranno far valere alcun diritto sull’impresa. I loro diritti successori devono però essere compensati.

Come?

La legge prevede espressamente che i diritti degli eredi che non ricevono l’azienda siano liquidati dal discendente che invece è stato prescelto per portarla avanti.

Mi sembra una cosa complicata e difficilmente realizzabile. E poi io non ho alcuna intenzione di cedere ora a mio figlio primogenito l’azienda. Non tutte le idee nuove che ha mi convincono.

Effettivamente la legge del 2006 pone una serie di problemi di attuazione. Il legislatore non ha voluto affrontare in termini generali il problema dei patti successori (che sono ancora vietati per la nostra legge) ed è stato dunque costretto ad introdurre norme complicate e di difficile applicazione pratica. Tuttavia, anche se la legge prevede che con il patto di famiglia l’azienda sia immediatamente trasferita all’erede designato, si possono trovare soluzioni tecniche che consentano a lei di mantenere il controllo e l’amministrazione. 

Vedo però un altro problema: il maggiore non ha certo ora i denari per liquidare i diritti del fratello.

Anche su questo punto la legge consente una soluzione. Ammette infatti che lei compensi il suo secondogenito attribuendogli altri beni che fanno parte del suo patrimonio, diversi dall’azienda. Lei quindi potrebbe attribuire al primogenito l’azienda e al secondogenito immobili o liquidità.

In realtà io vorrei che il mio patrimonio rimanesse unito e che fosse amministrato dal primogenito; vorrei che il fratello minore ricevesse una rendita annuale e che mio nipote ereditasse la gestione di tutto dopo lo zio.

Lei guarda molto avanti. La legge successoria italiana non consente nulla di tutto ciò. Negli ordinamenti anglosassoni invece, da centinaia di anni, è ammissibile la costituzione di un trust. Si tratta di una specie di fondazione con cui il fondatore dispone del suo patrimonio creando un vincolo di destinazione e imponendo che sia amministrato secondo regole da lui determinate, regole destinate a vincolare i beneficiari anche per un tempo lunghissimo. In Italia il trust non è disciplinato dalla legge anche se abbiamo aderito ad una Convenzione internazionale che vincola il nostro ordinamento a riconoscere i trust regolati dalle leggi straniere. 

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